In Torino, anno 1868, fu pubblicato un libercolo a cura della
tipografia di “G. Baglione & comp.” in caratteri greci antichi. Esso
conteneva una serie di versioni dal greco “con note italiane, ad uso delle
scuole”, come diceva il sottotitolo del frontespizio. Fra queste, fui colpito
da un titolo che così recitava: L’olimpionico
Diagora. Malgrado qualche errore, con l’ausilio
delle note e grazie a un po’ di buon senso, la
traduzione scorse piana. Così, dalle pagine ingiallite dal tempo, venne
prendendo vita una storia breve, una storia antica di duemilacinquecento anni,
ma di tale bellezza, suggestione e pathos, che di questa ho
voluto farne partecipi anche i lettori del “Rutto della Vigna”. Essa
conserva, intatta, quella suggestione che è propria solo delle favole antiche,
quel lirismo che è espressione di nobiltà e purezza d’animo, quella spiritualità
che l’uomo del duemila ha ormai perduta, ma che non
cessa di commuoverlo ogniqualvolta egli ne trovi la traccia.
Si narra (comincia così il testo greco) che Ferenice,
madre dell’atleta Pissirodo, giunse in Olimpia per
seguire le gare del figlio. Indossando una tunica da atleta, la donna riuscì a
sfuggire all’attenzione dei ginnasti ed entrò nello stadio. Vedendo il figlio
trionfare, la donna corse ad abbracciare il giovane
vincitore; il Fato volle che, nella gioia, la madre non si accorgesse della sua
veste la quale, strappata, tradiva la sua femminilità. Morte (1): questa era la pena per la donna che avesse assistito ai
giochi maschili (2). La sacrilega fu arrestata e vollero punirla
secondo la legge; però le salvarono la vita, non la uccisero. I giudici
rispettarono i suoi tre fratelli, tutti campioni olimpici; ma soprattutto
rispettarono la sacra memoria del padre di lei, il
mitico olimpionico Diagora. Infatti,
nei giudici era ancora vivo il ricordo della sua venuta, oramai vecchio, ad
Olimpia, per vedere gareggiare i suoi figli. Vedendo lo svolgersi delle gare,
egli ritornò col pensiero agli anni della sua giovinezza che erano
trascorsi così presto e con tanta gloria. E quando
vide i figli, entrambi vincitori, si commosse a tal punto che cominciò a piangere
calde lacrime, tanto da attirare l’attenzione di tutto lo stadio (3).
Gli corsero intorno allora i figli, gli misero le loro corone sulla testa e,
portandolo sulle spalle, gli fecero fare un giro
intorno allo stadio. Entusiasti e commossi, i greci applaudirono il corteo
trionfale e incominciarono a gettare fiori sul vecchio leggendario. E quando il corteo passò davanti alla delegazione spartana,
uno di questi gridò con voce stentorea: “Muori, o Diagora,
non sarai mai dio; questo è il maggiore onore concesso ad un mortale”. Questa
voce scosse l’animo del glorioso padre a tal punto che, poco dopo, egli chinava
la testa per sempre. Morì nello stadio; morì nella gloria, nella gioia. Il
corteo trionfale divenne processione funebre. E le innumerevoli voci dei greci,
che lo credevano ancora vivo e che continuavano a festeggiarlo, costituirono,
nella dolce serata di Olimpia, i canti funebri del
grande morto.
Un
Divino Ellenistico
NOTE:
(1) I sacrileghi, in Olimpia, erano gettati dal monte Tipeo, il più alto della regione.
(2) Esistevano anche giochi riservati alle sole
vergini, ad Irea, con scadenza
quadriennale.
(3) Quando si parla di stadio olimpico greco, non si
pensi ai catini odierni, capaci di cento, centoventimila spettatori. Lo stadio di Olimpia, gli scavi archeologici ce lo confermano, era
costituito dal campo di gara, in terra e lungo circa 192 metri. Ai lati di esso, per tutta la sua estensione, in forma rettangolare, si
sviluppavano quattro dolci pendii in erba dove gli spettatori prendevano posto
per assistere ai giochi. Si è così confermata la tradizione che voleva lo
stadio di Olimpia senza spalti né gradinate.